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Immagine del redattoreDonatella Bollani

Smart working: per lo spazio KPI aziendali che includano sostenibilità e attenzione alle persone

Aggiornamento: 28 ott 2022

E se ai Key Performance Indicators – KPI aziendali, concorressero nuovi parametri? Il comfort e la sostenibilità degli spazi, il gradiente di innovazione e ricerca dell’impresa, il benessere e il coinvolgimento delle persone, l’equità sociale? Tutti aspetti misurabili e le cui dimensioni saranno sempre più precise grazie a rilevazioni puntuali e qualitative dei comportamenti, dei consumi, degli investimenti. Una riflessione che invita a fare lo studio Gensler, multinazionale americana della progettazione. A Giuseppe Geneletti, Head Smart Working di Methodos, società di change management, in apertura di podcast ho chiesto come stanno cambiando le organizzazioni, gli spazi che le accolgono e, se in questo momento di grandi e rapide trasformazioni, ci stiamo dimenticando qualche elemento del nostro recente passato che potrebbe aiutarci nel passaggio a nuovi modelli organizzativi. Apro, come sempre, con una infilata di dati che confermano che stiamo vivendo nel pieno del fenomeno delle “Grandi Dimissioni”. Un momento molto delicato che a detta di Mariano Corso, docente di Leadership & Innovation del Politecno di Milano e Responsabile Scientifico di P4I – Partners4Innovation “è una vera polveriera che rischia di far esplodere il turnover e di minare clima, efficacia e motivazione nelle organizzazioni.”




Intervista


In questa puntata l’ospite è Giuseppe Geneletti, Head Smart Working di Methodos (www.methodos.com) società di consulenza che dal 1979 accompagna le aziende nel cambiamento.

A partire dal 2017, da Methodos sono nate Digital Attitude e Accompany, società di consulenza specializzate e focalizzate rispettivamente sulla digital adoption e sulla digital transformation. Dal 2022 Methodos, Digital Attitude e Accompany sono entrate a far parte del gruppo Digital360, contribuendo alla costruzione del polo di riferimento italiano per l'innovazione nel campo delle risorse umane e dei modelli organizzativi.


Dati


In apertura di podcast propongo come sempre un po’ di dati in attesa degli esiti della survey annuale dell’Osservatorio Smart Working della Scuola di alta formazione del Politecnico di Milano, che saranno dichiarati il prossimo 20 ottobre 2022 durante il webinar dal titolo: “Smart Working: il lavoro del futuro al bivio


LINK di iscrizione al webinar


Il Convegno presenterà i risultati della Ricerca 2022 che illustra la diffusione e le caratteristiche dei modelli di Smart Working in grandi imprese, PMI e PA, identificando i benefici e le criticità riscontrati da organizzazioni e persone. L’evento presenta gli sviluppi più recenti del fenomeno e delinea le tendenze future in termini di policy, spazi di lavoro e tecnologie, anche grazie al contributo delle testimonianze dei protagonisti della ricerca e dei vincitori del premio Smart Working Award.


Secondo uno studio di McKinsey, il 40% dei lavoratori a livello mondiale è intenzionato a cambiare lavoro nei prossimi 4-6 mesi, il 53% dei datori di lavoro ha affermato di avere un turnover volontario maggiore rispetto agli anni precedenti e il 64% si aspetta che il problema continui, o peggiori, nei prossimi sei mesi. La Great Resignation, o come la chiama McKinsey il Great Attrition, è quindi qualcosa con cui le imprese dovranno continuare a fare i conti, e per farlo forse occorre capire più in profondità che cosa è successo negli ultimi mesi.

Proprio la ricerca di McKinsey, che ha coinvolto quasi 6mila persone in età lavorativa di Australia, Canada, Singapore, Regno Unito e Stati Uniti, ha rilevato che il 36% di chi si è licenziato non aveva ancora in mano un nuovo lavoro. Ed è questo che caratterizza il nuovo fenomeno, che, diversamente dai precedenti cicli di regressione e ripresa, sta portando le persone a fare un vero e proprio salto nel buio, e sta facendo emergere prepotentemente il fatto che i datori di lavoro potrebbero non essere in contatto con quanto siano stati difficili gli ultimi 18 mesi per le loro persone.

A ribadire questo trend anche lo studio dell’IBM Institute for Business Value (IBV) che ha rilevato che nel 2020 1 dipendente su 5 ha cambiato volontariamente lavoro – Generazione Z (33%) e Millennial (25%) rappresentano le fasce di età che più si sono messe in gioco – e che 1 persona su 4, a livello globale, intende cambiare posto di lavoro nel 2021.


Come riporta poi l’Osservatorio HR del Politecnico di Milano, nell’ultimo anno il tasso di turnover è aumentato per il 73% delle aziende italiane, mostrando forti difficoltà in termini di capacità di motivare, coinvolgere e trattenere le persone presenti al proprio interno. Il 45% degli occupati dichiara di aver cambiato lavoro nell’ultimo anno o di avere intenzione di farlo da qui a 18 mesi. Numeri che crescono per i giovani (18-30 anni), per determinati settori (ICT, Servizi e Finance) e per alcuni profili (professionalità digitali). Tra le persone che hanno cambiato lavoro, 4 su 10 lo hanno fatto senza un’altra offerta di lavoro al momento delle dimissioni.

Il già citato studio dell’IBM Institute for Business Value (IBV) – che ha coinvolto 14mila lavoratori di tutto il mondo – ha sottolineato che le principali ragioni che portano le persone a dare le dimissioni sono la necessità di lavorare in una realtà più flessibile (32%), e la volontà di avere anche incarichi più mirati e soddisfacenti (27%). Nello scegliere il nuovo posto di lavoro, quello che guardano le persone è l’equilibrio tra lavoro e vita privata (51%) e le opportunità di avanzamento di carriera (43%). Inoltre, più del 40% ha sottolineato che l’etica e i valori del datore di lavoro sono importanti per motivarli e farli sentire parte di un gruppo, mentre il 36% ha affermato di apprezzare le opportunità di apprendimento continuo.


L’Osservatorio sul precariato dell’Inps ha recentemente pubblicato i nuovi dati che ribadiscono che il boom delle dimissioni è una realtà anche per l’Italia.


Nei primi sei mesi del 2022 le cessazioni sono state 3.322.000, in aumento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (+36%) per tutte le tipologie contrattuali: contratti stagionali (+64%), contratti intermittenti (+57%), contratti in apprendistato (+34%), contratti a tempo determinato (+33%), contratti a tempo indeterminato e contratti in somministrazione (+31%). Ma quello che salta all’occhio è che tra le ragioni di fine del contratto le dimissioni hanno un peso rilevante: si parla infatti di oltre 1 milione di casi con un aumento del 31,73% rispetto allo stesso periodo del 2021. Analizzando poi solo i tempi indeterminati la crescita rispetto al 2021 è del 22%.


L’Associazione Italiana Direzione Personale (AIDP)

ha pubblicato i dati secondo cui le dimissioni volontarie fra i giovani in Italia toccano il 60% delle aziende. I settori più coinvolti sono quello Informatico e Digitale (32%), Produzione (28%), Marketing e Commerciale (27%). A scegliere di cambiare lavoro sono soprattutto le persone nella fascia d’età compresa fra i 26 e i 35 anni, che costituisce il 70% del campione analizzato; perlopiù impiegati in aziende del Nord Italia.


Analizzando i dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sulle cessazioni dei rapporti di lavoro nel secondo trimestre del 2021, emerge che c’è stata una crescita tendenziale del +43,7%. In particolare tra aprile e giugno c’è stato un incremento delle cessazioni che ha fatto registrare 2 milioni 587mila chiusure dei rapporti lavorativi, con una crescita del 37% rispetto al trimestre precedente e un +768mila unità rispetto allo stesso trimestre del 2020. Di queste, 484mila per dimissioni volontarie dei lavoratori. E in generale la quota di abbandono volontario sul totale degli occupati ha superato il 2% per la prima volta da anni.


Come riporta poi l’Osservatorio HR del Politecnico di Milano, nell’ultimo anno il tasso di turnover è aumentato per il 73% delle aziende italiane, mostrando forti difficoltà in termini di capacità di motivare, coinvolgere e trattenere le persone presenti al proprio interno. Il 45% degli occupati dichiara di aver cambiato lavoro nell’ultimo anno o di avere intenzione di farlo da qui a 18 mesi. Numeri che crescono per i giovani (18-30 anni), per determinati settori (ICT, Servizi e Finance) e per alcuni profili (professionalità digitali). Tra le persone che hanno cambiato lavoro, 4 su 10 lo hanno fatto senza un’altra offerta di lavoro al momento delle dimissioni.

Il già citato studio dell’IBM Institute for Business Value (IBV) – che ha coinvolto 14mila lavoratori di tutto il mondo – ha sottolineato che le principali ragioni che portano le persone a dare le dimissioni sono la necessità di lavorare in una realtà più flessibile (32%), e la volontà di avere anche incarichi più mirati e soddisfacenti (27%). Nello scegliere il nuovo posto di lavoro, quello che guardano le persone è l’equilibrio tra lavoro e vita privata (51%) e le opportunità di avanzamento di carriera (43%). Inoltre, più del 40% ha sottolineato che l’etica e i valori del datore di lavoro sono importanti per motivarli e farli sentire parte di un gruppo, mentre il 36% ha affermato di apprezzare le opportunità di apprendimento continuo.



Boom nel Nord Est: smart working per il 70% delle imprese contro il 30% del Mezzogiorno

Per due datori di lavoro su tre (66%) questa modalità di lavoro incrementa la produttività e consente il risparmio dei costi di gestione degli spazi fisici, in particolare per le piccole imprese

Sono state soprattutto le imprese del Nord Est (70%) a utilizzare lo smart working, molto più di quelle del Nord Ovest (53%) e del Centro (57%). Pur segnando il passo il Mezzogiorno raggiunge una quota del 30%. È quanto emerge dal report “Attualità e prospettive dello smart working. Verso un nuovo modello di organizzazione del lavoro?”, presentato in occasione della giornata di studi sullo smart working organizzata a Benevento dall'Inapp (Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche).


Innovazione e spazi rivisitati

Medie (63%) e grandi imprese (78%) registrano i valori più alti nel ricorso a questa modalità di lavoro, ma anche la metà delle micro imprese che lo ha utilizzato guarda avanti: il 31% di quelle con fino a 5 addetti ha investito in tecnologie e software a supporto delle attività smart e il 28% di quelle con 6-9 addetti, ha modificato a degli spazi di lavoro tradizionali. Le potenziali criticità si registrano sul fronte dei rapporti umani: lo smart working non facilita i rapporti fra i colleghi e con i responsabili (per il 62% degli smartworkers e per il 43% delle imprese smart) e aumenta l'isolamento (per il 65% degli smartworkers e per il 49% delle imprese smart).


Opinion leader


«Se ancora non ce ne fossimo accorti anche i dati lo confermano, siamo in pieno Big Quit! Quello che sta accadendo è una vera polveriera che rischia di far esplodere il turnover e di minare clima, efficacia e motivazione nelle organizzazioni. Aziende e manager si scoprono impotenti. Resteranno competitive solo quelle organizzazioni che dimostreranno di essere in grado di: attrarre e far crescere le loro persone, investire in competenze per far cogliere obiettivi professionali sfidanti, e riprogettare le organizzazioni per la velocità e l’innovazione. Come? Provando ad ascoltare davvero le persone e chiedendosi cosa si può dare loro di più rispetto allo stipendio dovuto», ha dichiarato Mariano Corso, Docente di Leadership & Innovation del Polimi e Responsabile Scientifico di P4I – Partners4Innovation.


In Italia, secondo quanto rileva l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, diversi fattori influiscono sulla scelta di cambiare lavoro: il 46% lo fa per cercare benefici economici, il 35% per le opportunità di carriera, il 24% per una maggiore salute fisica o mentale, il 18% per inseguire le proprie passioni o una maggiore flessibilità dell’orario di lavoro (18%).


«Lo smart working è un modello organizzativo che ha come obiettivo quello di passare a una maggiore responsabilizzazione del lavoratore sui risultati, dunque a un lavoro per obiettivi, e a una maggiore attenzione al miglioramento della performance. Per fare questo si dà una maggiore autonomia e flessibilità al lavoratore in termini di scelta del luogo di lavoro, in termini di orari e gestione degli orari di lavoro e di strumenti manageriali. Lo smart working vero passa da un accordo individuale e non è un diritto, non è un contratto, men che meno collettivo, ma è una possibilità che viene offerta al lavoratore, che se sceglie di prendersi questa autonomia, deve scegliere anche di raggiungere dei risultati» .

Un modello molto lontano da quello che abbiamo visto in Italia durante la pandemia…


Cosa sta accadendo nella PA? Si sta perdendo una occasione?


Scrive Mariano Corso in un suo post su Linkedin: “Qualsiasi generalizzazione è pericolosa: non esiste UNA #PA, come non esiste UNA #impresa privata. Ed anche sullo #Smartworking non mancano nella PA casi di eccellenza. L’ultimo anno ha visto però una ulteriore, pesante riduzione nel numero di Smart Worker ed un pericoloso scivolamento verso un modello di remote working privo di autonomia reale e orientamento ai risultati. Un modello che ha ben poco a che fare con la filosofia del vero Smart Working e con le motivazioni con la quali il Lavoro Agile era stato introdotto nella PA già prima della Pandemia, come strumento di managerialità, digitalizzazione e orientamento alla performance. È il frutto di scelte sbagliate e di una incrollabile, ideologica sfiducia verso i lavoratori pubblici. Ora è il momento di cambiare, perché restare nell’ambiguità e incompiutezza di un modello di lavoro che non fa evolvere autonomia e managerialità, ma si limita a “concedere” lavoro da casa come forma di privilegio, non solo non farà migliorare performance e qualità del servizio, ma rischia di caricare i lavoratori di stress e malessere, rendendo ancor meno attrattivo e ingaggiante il lavoro pubblico. Imparare da chi sa e vuole fare il vero Smart Working si può e si deve: nella PA basta ripartire da quel percorso avviato con la definizione delle linee guida per lo sviluppo dei #POLA (Piani Organizzativi per il Lavoro Agile) che è stato colpevolmente interrotto nell’ultimo anno.”


Design


Gensler, A Future Vision of Workplace Metrics

A cura di Mike O'Neill


Oltre alle metriche spaziali e alle valutazioni dei sondaggi, ora si cerca di valutare il successo della progettazione per un ambiente di lavoro "incentrato sulle persone", utilizzando i risultati dell'organizzazione come KPI delle prestazioni sul posto di lavoro. I KPI potrebbero includere risultati aziendali (come valore di mercato o brevetti rilasciati), prestazioni aziendali (coinvolgimento e fidelizzazione dei dipendenti), sostenibilità (uso dell'energia/impronta di carbonio, utilizzo dello spazio), benessere (salute mentale e resilienza dei dipendenti) e equità sociale (diversità e inclusione). Questi ultimi due risultati sono anche correlati alle linee guida ambientali, sociali e di governance (ESG) e l'implicazione è che molti di questi risultati possono essere direttamente o indirettamente influenzati da aspetti della progettazione del luogo di lavoro.




DALLA TV il mitico Paolo Pagliaro

Finita l’emergenza resta lo Smart Working

Paolo Pagliaro, 30 settembre 2022, Otto e Mezzo, LA7



Se vi piacciono questi miei brevi sorvoli, che sempre potrete approfondire attraverso il mio Summary al blog LaBollani.it, continuate a seguirmi.


A presto da #LaBollani

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